Bhutan, anno 2006. Nel piccolo paese himalaiano il monarca ha annunciato la propria abdicazione e ci si prepara ad una storica transizione verso la democrazia.
Mentre la notizia fa il giro del mondo e i funzionari dello stato vanno di villaggio in villaggio per spiegare concetti lontanissimi per la popolazione, come il confronto politico e il voto, un giovane monaco attraversa un campo di frumento per andare dal suo Lama. Non sa ancora che il maestro spirituale gli farà la richiesta più sconcertante per un buddhista: procurare due armi da fuoco entro la prossima luna piena, per una misteriosa cerimonia – il cui segreto verrà svelato solo nel finale.
Questa è la cornice narrativa nella quale si sviluppa “The monk and the gun”, in italiano “C’era una volta in Bhutan”, pellicola del regista Pawo Choyning Dorji, a metà tra il documentario e la commedia satirica. Il film, scelto per rappresentare il suo paese nella categoria miglior film straniero agli Oscar di quest’anno, è difatti un viaggio alla scoperta dell’ultimo Shangri La, ma anche una critica ironica e tagliente della modernità e dei cosiddetti valori occidentali.
Mentre il monaco Tashi, partito per la sua missione, incrocia il proprio cammino con un americano collezionista di armi, un agricoltore che possiede un antico fucile e un mosaico di altre figure, per insegnare alla gente a votare vengono organizzate delle finte elezioni, con tanto di risse politiche, alle quali i bhutanesi partecipano con un misto di incredulità ed incomprensione.
Cresciuti all’ombra di concetti scontati, ci spiazza la reazione di una popolazione forte di tradizioni millenarie, radicata nella gentilezza e nel senso del bene comune e spaesata di fronte ad un cambiamento imposto, del quale non sente la necessità. Dopo tutto il Bhutan è stato l’ultimo paese del mondo ad avere accesso ad internet.
Ma sorridiamo quando un funzionario dello stato esprime all’americano tutta la sua ammirazione per “la terra della democrazia e della libertà”, citando Abraham Lincoln, e questi lo guarda smarrito.
Il regista, di origini bhutanesi ma formatosi negli USA, è un maestro del confronto. Siamo certi, ci interroga il film, di vivere nel migliore dei mondi possibili?