L’appellativo di Tulku, basato sulla convinzione che Maestri dalle grandi realizzazioni spirituali, mossi dall’altruismo e dalla compassione, rinascano più volte in diverse forme umane per aiutare gli esseri senzienti a liberarsi dal giogo della sofferenza – e possano essere ritrovati – emerge in Tibet attorno al XII° secolo, dando luogo a molteplici lignaggi, maggiori e minori: tra i più conosciuti ed eminenti quelli del Dalai Lama e del Karmapa.
Con il diffondersi del Buddhismo in occidente, emanazioni di figure religiose sono state riconosciute anche oltre i confini geografici della società tibetana.
Così è stato per il Venerabile Lama Paljin Tulku Rinpoce. Sono passati quasi trent’anni da quel 14 luglio 1995, quando i Monaci del Monastero di Lamayuru in Ladakh, all’ombra solenne delle vette Himalayane, si riunirono per accogliere Arnaldo Graglia quale reincarnazione di Je Paljin, uno yogin vissuto nel XVII secolo nella regione, ancora oggi ricordato come Drubwang o grande Siddha realizzato. “Egli è nuovamente tra noi,” – affermarono – “in questa sala.” Il primo italiano ad essere formalmente riconosciuto come il ritorno di un Maestro del Buddhismo tibetano. Il resto è storia, della quale molti tra i Lettori sono testimoni devoti.
L’intera esistenza del Ven. Lama Paljin prova che non solo una integrazione tra oriente e occidente è possibile, ma che da essa può generarsi un motore propulsivo del Buddhismo e della spiritualità in questo millennio.
Per alcuni Tulku occidentali, invece, vivere la propria identità sospesa tra ieri ed oggi e trovare la propria strada sono state una sfida. Comprensibilmente.
Immaginiamoci la scena. Un giorno, in una casa come tante altre, genitori come tanti altri si trovano a fronteggiare la notizia che il proprio bambino come tanti altri non è, anzi sarebbe la reincarnazione di un eminente religioso del passato. Le famiglie tibetane esplodono di gioia, celebrano ed onorano il rango del piccolo e trovano nella propria fede la forza necessaria per impacchettare il frugoletto ed inviarlo ad insediarsi e studiare in un Monastero lontanissimo, sotto le amorevoli cure di un Monaco tutore, che gli sarà padre e madre negli anni della formazione.
Ma supponiamo che il figlio sia nostro: chi tra noi non mostrerà qualche perplessità, almeno iniziale? Naturalmente ci sono gli oracoli, le visioni, i ricordi emersi, le prove fatte con oggetti e situazioni della precedente identità che il candidato deve riconoscere. Ma anche riuscendo ad accettare come vera una storia che ci richiede di cambiare il modo stesso in cui pensiamo alla vita, ci chiederemo sgomenti “E ora?”. È il caso cinematografico del bambino americano Jesse nel celebrato capolavoro “Piccolo Buddha” di Bernardo Bertolucci.
E ci sono i casi reali di diversi occidentali, nati in particolare tra gli anni ‘70 e ’80 e ufficialmente riconosciuti come Tulku, a testimoniare un percorso non sempre lineare.
Prendiamo per esempio Elijah Ary. Sembra il tipico bambino canadese, unica peculiarità il fatto che i genitori gestiscono un centro di meditazione. Dove un giorno ricevono un visitatore venuto da lontano, il Monaco Khensur Pema Gyaltsen. Quasi immediatamente il piccolo di soli quattro anni si mette a parlare con lui, facendo nomi di gente e descrivendo luoghi nella regione Himalayana, che ovviamente non ha mai visto. Per i genitori è soltanto immaginazione, ma il Monaco conosce una ad una le persone nominate. Presto arriva una lettera, indirizzata alla coppia, che dice, in sostanza, avete il nostro Maestro, Geshe Jatze, deceduto nel 1950, vi preghiamo di restituircelo al più presto.
La risposta è no, il piccolo resta a casa sua. Ma diviene ben presto evidente che crescendo si senta fuori posto. Un giorno a scuola disegna il palazzo Potala di Lhasa in tutti i dettagli. Quando i compagni gli chiedono se ci sia mai stato risponde “Non in questa vita”. Così a 14 anni finalmente parte alla volta del Sera Monastery in India. Al principio, come testimonia sua mamma, è “come ributtare un pesce in acqua”. Ma la sua mentalità entra presto in conflitto con le rigide regole e la sottile etichetta del Monastero. Non resiste. Tornato in Canada e dopo altre vicissitudini, seguendo un consiglio ricevuto dal Dalai Lama, diventerà infine uno psicoterapeuta.
Che senso ha tutto questo? Perché dunque i Tulku farebbero la loro apparizione dalle nostre parti? Per il praticante buddhista, che conosce il significato della parola bodhisattva, il motivo è ovvio: chi ritorna lo fa per aiutare. Altrettanto chiaro, però. è che questo compito nella società moderna non sarà semplice.
La tradizione dei Tulku è estremamente importante nel Buddhismo tibetano e tale resterà. Ma essa è intimamente dipendente da quella profonda cultura religiosa, che diviene trama del tessuto sociale tibetano. Perché fioriscano le incarnazioni mistiche, in poche parole, ci vogliono i Monasteri ed un universo intero che ruoti attorno ad essi. L’ovest del pianeta non sembra intimamente né materialmente attrezzato per riconoscere figure spirituali di questo calibro, per comprenderle sino in fondo, per aiutarle nel loro lavoro su questa Terra. Così per un occidentale che riceva una simile chiamata la scelta rischia di essere dura: alienarsi il proprio mondo e vivere come un Lama tibetano; oppure restare nella cosiddetta società civile, testimoniare il Dharma in modo diverso, ma in questo porsi dolorosamente in contrasto con una tradizione millenaria.
La sfida è aperta: può l’Occidente, con la sua visione superficiale e strumentale della spiritualità, accogliere la realtà straordinaria dei Tulku?