Il monastero buddhista nell’immaginario collettivo appare una istituzione isolata e chiusa. Invece è un microcosmo che riflette perfettamente l’ampia realtà che lo circonda. Anche se posto in contesti naturali remoti e appartati, è un “mondo aperto” sia dal punto di vista spirituale che sociale, un ponte tra la vita meditativa e laica, un luogo di connessione interculturale, di pratica ecologica e di accoglienza della diversità.
Anzitutto sito di rifugio e di meditazione, il monastero consente di addestrarsi nella spiritualità. Ma questo viaggio interiore non è una fuga. Nel monastero si apprende che la pratica interiore non è mai sconnessa dalla esistenza esteriore, anzi ne è parte integrante. L’interdipendenza di tutti i fenomeni e l’esercizio della compassione collegano indissolubilmente il buddhista ad ogni cosa e a tutti gli esseri, ogni giorno della sua vita.
I monaci solo apparentemente scelgono di stare fuori dal mondo; invece, si impegnano e partecipano attivamente al bene dell’umanità, non solo attraverso i frutti delle discipline meditative e della preghiera, ma nella pratica tutta del buddhismo, che è azione. Essi sono attenti osservatori della società e partecipi apportatori di cambiamento positivo.
I monasteri nascono come luoghi di apprendimento, in cui i religiosi ed oggi anche i semplici praticanti e visitatori possono studiare e ricevere insegnamenti. Il crescente interesse occidentale per il buddhismo e la meditazione ha portato diversi centri monastici a diventare veri e propri spazi multiculturali. La vocazione educativa coniugata con l’assenza sostanziale di dogmatismo nell’approccio dottrinale, aprono di fatto il monastero buddhista alla società circostante, facendone un luogo elettivo per l’incontro e il dialogo tra differenti tradizioni spirituali, in cui visioni alternative possono dialogare e coesistere pacificamente, nell’apprezzamento della diversità.
Che è anche bio-diversità. In genere il locus monastico si integra nel paesaggio naturale senza alterarlo in modo significativo, anzi valorizzando l’ambiente e avendo cura degli esseri che lo abitano. L’amorevole gentilezza, cardine della dottrina, si rivolge anche al pianeta e molti monasteri fungono da esempi, vivendo secondo il principio della non violenza (ahimsa) e limitando l’impronta ecologica. L’alimentazione, spesso vegetariana o vegana, l’uso consapevole delle risorse e la gestione responsabile dei rifiuti sono diffuse, testimoniando un rapporto con l’ambiente visto come soggetto amico e ricchezza universale.
In questo senso il monastero buddhista ispira uno stile di vita più sostenibile, diventando modello di un’esistenza umana in equilibrio con tutto ciò che è.
Di fatto esso sviluppa una forte interazione con il tessuto sociale. La pratica dell’offerta generosa (dana) si concretizza nel supporto reciproco tra monaci e comunità laica. I primi dipendono dalle donazioni per vivere, mentre in cambio offrono sostegno morale e psicologico, supporto economico e sociale per i bisognosi, percorsi di crescita spirituale. Questa reciprocità crea un legame profondo con la gente. Così, il monastero è visto come la casa di tutti, accogliente e sempre accessibile a chiunque senta il bisogno di rifugio e aiuto.
Il monastero buddhista, quindi, non luogo separato ma microcosmo che, incarnando principi universali come l’amore, la compassione, l’interdipendenza, il rispetto per il pianeta e la condivisione, diviene quel “mondo aperto” in cui la vita religiosa incontra quella laica e il pensiero orientale si unisce con altre culture. Esso non solo riflette, ma amplifica la realtà, dimostrando come la spiritualità possa fiorire all’interno della società e in connessione con essa. In questo modo, il monastero buddhista rappresenta una sfida ai concetti di isolamento e separazione, diventando un ponte tra interiore ed esteriore, un modello di armonia, tolleranza e apertura verso la vita in tutte le sue forme.
Nella foto Il complesso monastico di Lamayuru (Ladakh)